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Comunità OFM Convento Eremo S. Felice - Cologna Veneta (VR)

Eremo San Felice

I Domenica di Quaresima Anno C

2025-05-17 18:12

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Riflessioni,

I Domenica di Quaresima Anno C

9 marzo 2025


Dt 26,4-10   Sal 90   Rm 10,8-13   Lc 4,1-13


STA SCRITTO


Il meglio delle primizie del tuo suolo lo porterai alla casa del tuo Dio” (Es 23,19). Questa era la disposizione della Torah e in primavera, all’inizio della mietitura dell’orzo, il primo covone veniva portato nel tempio e offerto al Signore (Es 23,16). Dopo sette settimane, a conclusione della raccolta del grano, si celebrava la festa di Pentecoste e anche in questa occasione erano presentate a Dio le primizie (Es 34,22), non di tutti i frutti del campo, ma solo di quelle sette specie che sono il simbolo della terra d’Israele: il grano, l’orzo, l’uva, i fichi, i melograni, le olive e i datteri (Dt 8,8). 


Con questo rito si proclamava solennemente che Dio era il padrone della terra e di quanto essa produce. Oltre a questa offerta pubblica ce n’era un’altra, privata, celebrata da ogni singolo gruppo familiare. E’ a questa che fa riferimento la lettura di oggi. 


Quando i frutti cominciavano a spuntare sugli alberi, il contadino segnava con un nastro i primi e, non appena erano maturi, li poneva in un cesto. Poi, accompagnato da tutta la sua famiglia, li portava al tempio. Nel consegnarli al ministro di Dio, diceva: riconosco che questi frutti non mi appartengono, sono un dono del Signore, sono cresciuti sulla terra che egli mi ha dato (Dt 26,1-3). E’ a questo punto che inizia la nostra lettura: il sacerdote prendeva il cesto e lo deponeva davanti all’altare del Signore, poi invitava il contadino a fare la sua professione di fede. Lo aiutava recitando ad alta voce, in ebraico, ogni versetto del Credo e il pellegrino ripeteva, parola per parola, ciò che udiva. 


Alcuni pensano che il Credo sia una specie di elenco di verità astratte che è necessario ammettere se non si vuole essere considerati eretici. Se chiedessimo invece a un ebreo qual è la sua fede, egli ci risponderebbe con un racconto. Comincerebbe così: “Mio padre, Giacobbe, era un arameo errante” e continuerebbe narrando la storia del suo popolo e le gesta dEl Signore in suo favore. 


La parte centrale della lettura di oggi (vv.5-9) contiene, in sintesi, proprio questa storia di salvezza. In essa si colgono facilmente due contrasti. Il primo fra la situazione da cui ha avuto origine Israele (…da un “arameo errante”, senza terra, senza sicurezza, senza patria) e la realtà attuale: nel tempio c’è un agricoltore benestante che, con la sua famiglia, celebra sereno la festa, offre i frutti dei suoi campi, si rallegra perché i raccolti si annunciano abbondanti. L’indigenza si è mutata in prosperità.


Il secondo contrasto è fra la condizione di schiavitù e quella della libertà. In terra straniera Israele è stato oppresso, maltrattato, umiliato, ora vive libero e felice. 


Viene da chiedersi: chi ha operato questi prodigiosi capovolgimenti? Nella sua professione di fede, il pio israelita dà la risposta: “Il Signore vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi, e ci condusse in questo luogo e ci diede questo paese, dove scorre latte e miele” (vv.8-9). Con la cerimonia delle primizie e con la professione della loro fede, gli israeliti riconoscono che Dio è stato fedele alle sue promesse e che la loro vita dipende completamente dalla sua generosità. Tutto ciò che hanno è un dono suo. 


Che fine facevano le primizie portate al tempio dal contadino?


Forse la risposta che ci viene in mente è: erano donate ai ministri che avevano officiato il rito. Peccato che la nostra lettura si fermi al v. 10 e non riporti i versetti seguenti. I frutti non venivano bruciati sull’altare né erano dati ai sacerdoti. Erano consegnati ai “rappresentanti Dio”, i poveri. Erano offerti ai leviti, ai forestieri, agli orfani ed alle vedove (Dt 26,11-12). La festa poteva considerarsi ben riuscita e gradita a Dio solo dopo che i bisognosi e gli indigenti erano stati saziati. Prima di lasciare il santuario dove aveva offerto le primizie, il contadino era invitato a proclamare dinanzi al Signore suo Dio anche questa formula: “Ho tolto dalla mia casa ciò che era consacrato e l’ho dato al levita, al forestiero, all’orfano e alla vedova, secondo quanto mi hai ordinato” (Dt 26,13). 


C’è un fatto che può essere verificato da tutti: i luoghi di preghiera (non importa di quale religione) costituiscono un richiamo irresistibile per i poveri. Quasi per istinto essi sembrano percepire che chi si avvicina a Dio diviene solidale e generoso con chi è nel bisogno. Questo brano è stato scelto come apertura della Quaresima perché, a tutti coloro che chiama a conversione, Dio mostra le trasformazioni prodigiose che opera in chi si fida di lui. 


Non è stato facile per Israele credere nel Signore. Più volte è stato tentato di rimpiangere la situazione di schiavitù in cui era vissuto in Egitto. Dicevano i rabbini: “Non fu solo necessario trarre gli Ebrei dall’Egitto; fu anche necessario trarre l’Egitto dal cuore degli Ebrei”. Tuttavia, coloro che si sono fidati del Signore hanno verificato e possono testimoniare che quando DIO invita ad uscire da una terra è sempre per introdurre in un’altra migliore. 


Israele ha avuto – dice Paolo – l’opportunità di giungere alla salvezza perché ha avuto vicino la parola del Vangelo, l’ha ascoltata dalla bocca stessa di Cristo e degli apostoli. Purtroppo non ha capito che il suo esodo verso la libertà non era ancora concluso, si è stancato di seguire il Signore, si è fermato. Solo una primizia di questo popolo ha capito e ha seguito Cristo (Rm 11,16). A costoro viene chiesto di professare la loro fede e di questa fede viene anche enunciata la formula che tutta la riassume: Gesù è il Signore


È questa la prima formula usata come “Credo” nella chiesa primitiva. Paolo lo ha già citato nella prima Lettera ai Corinti: “Nessuno può dire: Gesù è il Signore se non nello Spirito Santo” (1 Cor 12,3). Solo chi è animato dallo Spirito può proclamare che un condannato, uno sconfitto è il Salvatore del mondo. Questa formula paolina è stata conservata nel Gloria e ogni domenica noi ripetiamo: Tu solo sei il Signore, Gesù Cristo! La fede in Gesù-Signore – continua Paolo – deve essere proclamata in due modi: con il cuore e con la lingua. 


Con il cuore significa: con l’adesione della vita. La fede in Cristo deve portare a scelte basate su principi e su valori completamente nuovi.  


Poi è necessaria la professione di fede con la bocca. La bocca è strettamente legata al cuore. Lo ha detto Gesù: “Con la bocca si esprime ciò che si ha nel cuore” (Lc 6,45). Chi è restio o addirittura si vergogna di dichiarare la propria fede vuol dire che è rimasto coinvolto solo in modo superficiale da Cristo. 


Chi proclama il Credo insieme ai fratelli prende coscienza di appartenere ad un unico popolo di credenti che costituiscono “come la primizia delle sue creature” (Gc 1,18), ed è obbligato a considerare senza senso ogni distinzione fra “giudeo e greco”. L’unica professione di fede abbatte tutte le barriere create dalle differenze di razza, di cultura, di condizioni sociali ed economiche, di temperamento e di carattere.



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